Il 9 febbraio scorso, a Bologna, in occasione del Festival musicale Angelica, ha fatto il suo esordio il gruppo Black Afrique Fluxus – Cardiew Ensemble, composto da quattro “nostri” ragazzi e due musicisti italiani.
Mario Baroni – musicologo, professore di Metodologia dell’educazione musicale presso le Università della Calabria e di Bologna, direttore della “Rivista di analisi e teoria musicale”, autore e curatore di numerosi e importanti libri sul tema musicale – era presente e ci ha inviato le sue impressioni. È con grande piacere che noi le pubblichiamo insieme ad alcune foto fatte durante il concerto.
Black Afrique Fluxus – Cardiew Ensemble
Il Festival musicale “Angelica”, da quando è nato a Bologna ormai tanti anni fa, ha sempre avuto la vocazione di presentare musiche che chiamava “di frontiera”, cioè musiche d’oggi non consuete, ai limiti dell’inedito. L’altra sera, per la precisione il 9 febbraio del 2017, ha offerto un caso esemplare di frontiera inedita: ha portato sul palcoscenico un gruppo che si chiama Black Afrique Fluxus – Cardiew Ensemble e che ha messo insieme quattro musicisti dell’Africa sub sahariana e due musicisti italiani, di formazione “classica”, che suonavano fra loro e se l’intendevano come se si fossero conosciuti da una vita, non da un anno. E suonavano una musica che non era né africana né appartenente all’Europa di Fluxus, ma era “nuova”, mai sentita fino a oggi.
I quattro africani danzavano, cantavano, recitavano (in inglese, in francese, in italiano) suonavano tre tamburi, una mbira, una kora – uno strumento ad arco africano –, i due italiani suonavano un violoncello e una chitarra elettrificata e manovravano sensori collegati a computer che permettevano di elaborare, modificare e fondere i suoni.
In qualche caso le canzoni erano tradizionali, ritmate, danzate e cantate nei dialetti africani con tale energia espressiva che facevano quasi indovinare le parole (peccato però che il pubblico non le conoscesse: ci voleva poco a proiettarle…); in altri casi erano mormorate, in altri ancora la voce non cantava canzoni, ma evocava con straordinaria suggestione suoni simili a quelli di una immaginaria foresta. E le danze, a seconda del tipo di musica, alternavano voli eleganti o violenti a movimenti fluidi di braccia e di corpo.
Gli strumentisti italiani a volte moltiplicavano i suoni fino a saturarne la potenza sonora e a distribuirla in tutta la sala, a volte si limitavano a echi, a interferenze, a piccoli suggerimenti, a volte inacidivano, oppure addolcivano i suoni, a volte accompagnavano le voci e gli strumenti con note lunghe, a volte le interrompevano con inaspettati silenzi. In ogni caso fasciavano le sonorità quasi mai lasciandole emergere come naturali ma sempre avvolgendole in continue iridescenze che andavano dal sogno ai turbamenti dell’inconscio.
La sorpresa più straordinaria, però, è stata la continuità musicale con cui la serata si è svolta dall’inizio alla fine, con una regia sapientissima di contrasti, di pause, di riprese, che non hanno mai interrotto la tensione che a poco a poco si è venuta creando; anche i silenzi del suono e i momenti parlati entravano con naturalezza in questa continuità e l’articolavano senza spezzarla. Alla fine dello spettacolo, dopo gli applausi finali si è capito il perché di questa inconsueta naturalezza: i quattro ospiti si sono messi a parlare al pubblico con una spontaneità da non credere, come se si trovassero in mezzo a loro amici. Forse il segreto di tutta la serata stava proprio nella loro voglia di comunicare e di interagire: senza esibizioni, ma con grande ricchezza umana. E si può aggiungere infine che la spontaneità della comunicazione ha contaminato gli esecutori italiani e il piacere delle sonorità avvolgenti ha contaminato gli esecutori africani.
Per la cronaca i sei nomi erano quelli di Ide Maman, Yussuf Sissako, Karim Sowe, Tijan Gassama, Federico Mosconi, Nicola Baroni.
Mario Baroni